NICOLA ZANI
detto
BADARLON

(Camerano, Sant'Arcangelo di Romagna 1823 - San Marino 1903)

 
L'unica foto esistente di BADARLON
Foto Dott.Teyxeira Agosto 1901

Nicola Zani, detto BADARLON, aveva sette anni quando nel 1830 la sua famiglia si trasferi da Camerano, frazione di Sant'Arcangelo, nel Borgo Maggiore dove i genitori, Andrea e Teresa, apersero una modesta botteguccia per la concia e la vendita della canapa. Trascorse dunque la sua lunga vita a San Marino dove sposò Marina Cesarini oriunda di Sant'Angelo (Pesaro), ma nata a San Marino, il 16 Settembre 1826, dalla quale ebbe otto figli:Giuseppe, Romeo, Oreste (detto GNIN), Edoardo, Attilio, Pio, Settimio e Teresa. Egli divenne imprenditore di lavori e diresse anche la costruzione della strada consolare da Città a Borgo. Nel 1900 ottenne la cittadinanza per sè e per i figli. Mori il 9 Settembre 1903. lo lo ricordo vecchio e cieco, con la barba fluente, col bastone in mano e col cappello nero alla romagnola, narrare ai forestieri, che andavano a visitarlo in casa, o che si soffermavano all'imbocco di Via Santa Croce dove egli sedeva all'ombra, la sua nobile impresa garibaldina.( Da "In memoria di Gino Zani" di Francesco Balsimelli)

 

 
Oreste Zani (Gnin), figlio di Badarlon, e i suoi figli
 
Marietta Gardenghi
Moglie di Angelo
Angelo Zani
(Angiulot)
Gino Zani
Lorenzo Zani
 
Erminia Rosti
Moglie di Oreste Zani
Oreste Zani
Maria Zani

...Mio nonno morì alle 5 e venticinque minuti del giorno 9 settembre 1903. Nonno Nicola soprannominato Badarlon era nato a Camerano presso Sant'Arcangelo di Romagna nell'anno 1823. Aveva adunque ottant'anni, ma era cieco e da cinque anni infermo in letto.
 Due anni prima, colpito da polmonite, per poco non aveva fatto il gran viaggio. Ma una mattina chiamò mio padre e gli disse che in sonno aveva ricevuto visita di Cristoforo, suo amico di Verrucchio morto da tempo, il quale gli aveva detto che sarebbe guarito e che doveva campare due anni ancora. Nonno Badarlon aveva tenuto la contabilità del tempo che gli restava di vita: venti mesi… cinque mesi…novanta giorni… trenta giorni. Alcuni giorni prima di morire mandò a chiamare Alfredo Reffi, corrispondente della Tribuna e gli disse: - Ho ancora otto giorni da vivere. Me lo fate un articolo sul vostro giornale? - Alfredo rise e promise.
 Il nonno disse ancora che avrebbe voluto essere accompagnato alla chiesa dei Cappuccini al suono dell'inno di Garibaldi, ma non aveva il denaro per pagare il concerto. Era evidente che sentiva mancarsi la vita. Morì quasi esattamente nel tempo che aveva previsto.
 La mattina del 9 settembre vennero a chiamarmi nella casa dell'Angiolina dove dormivo. Trovai il nonno che era già spirato, assistito da Don Antonio Magnanelli, che gli chiuse gli occhi e gli pose tra le mani incrociate sul petto un vecchio crocifisso. Nella casa era un silenzio di tomba. Con la fine della pensione del nonno la mia famiglia sprofondava ancor più nella miseria.

* * *

Con la morte di Nicola Zani scompariva uno dei reduci della guerra dell'indipendenza italiana e la guida che aveva condotto il generale Garibaldi fuori dall'accerchiamento austriaco nel 1849. Nato, come ho detto a Camerano, erasi trasferito a San Marino fino dall'età di otto anni col padre Andrea, detto Ndrion. Il quale era scappato dal paese natio perché in un momento di rabbia aveva scaraventato fuori dalla finestra un grosso ceppo che affumicava la casa ed aveva colpito nella testa una vecchia che passava facendola uscire fuori di senno. Era tuttavia tradizione in famiglia che gli antenati di Ndrion fossero oriundi di San Marino.
 Sul monte Titano aveva sposato Marina Cesarini, figlia di un falegname la cui famiglia era immigrata da Pesaro, dove aveva lasciato parenti ricchi e blasonati. Dal matrimonio nacquero sette figli maschi ed una femmina: Pio, Giuseppe, Romeo, Attilio, Oreste, Odoardo, Settimio e Teresa.
 Da giovine, come ogni buon Romagnolo, si era ingolfato nella politica: fu un repubblicano liberale e mangiapreti. Di mestiere fu conciatore di canapa. Ma poiché apparteneva al partito Mazziniano e cioè alla giovine Italia, fu obbligato a fare la guida. Prelevava i renitenti di leva dalla Lombardia, dal Veneto e dalla Emilia, e li accompagnava a Roma, di dove poi avevano la possibilità di rifugiarsi in terra napoletana o di emigrare all'estero. Erano brigate di quindici o venti uomini, divisi in piccoli gruppi. Facevano la strada a piedi attraverso i monti, marciando più di notte che di giorno. Per giungere dalla Romagna a Roma impiegavano in media dodici giorni, mangiavano come potevano, dormivano nelle stalle o sotto gli alberi. Per ogni renitente condotto a destinazione Badarlon guadagnava circa quattro scudi, paga piccola, ma grande soddisfazione di strappare un soldato dalle grinfie dell'Austria.
 Finite le guerre d'indipendenza, divenne appaltatore di lavori stradali, ma non riuscì mai a racimolare qualche risparmio ...

Da il diario di Gino Zani

Il giorno 25 Marzo 1907 mentre ero curvo sul tavolo da disegno in un'aula della scuola, ricevetti un telegramma. Lo aprii tremando per timore di una disgrazia. Infatti era morta nonna Marina.
 La nonna aveva ottantun'anno e sei mesi. L'avevo lasciata un poco sofferente, ma nulla faceva prevedere una così rapida fine. Uscii dalla scuola e mi andai a chiudere nella mia camera. Più che il dolore mi tormentava il rimorso di essere partito senza salutarla. Non avevo voluto svegliarla la mattina della partenza, anche perché era solita attacarmisi al collo con le magre braccia come per impedirmi di andarmene e non finiva mai di baciarmi come se fossi ancora un bambino. Povera vecchia!
Mia madre mi disse poi che durante la malattia non aveva mai chiesto di me, come era solita, e ciò volse ad acuire il mio rammarico.
 Aveva vissuto una vita di stenti e di miseria.
Suo padre, Angelo Cesarini, morì ancor giovane e lasciò dieci figli, cinque maschi e cinque femmine, a carico della madre Caterina Fiorani. Angelo Cesarini morì di crepacuore. Era discendente da famiglia immigrata da Pesaro, dove era parente di ricchi blasonati. Qui decadde e si ridusse in miseria. Angelo era falegname ed operaio di fiducia del Sig. Mercuri, nobile Sammarinese.
 Un brutto giorno il povero falegname andò a chiedere il pagamento di lavori fatti. Si sentì rispondere dal nobile Mercuri: - Non vi debbo nulla! Vi siete pagato con le vostre mani. Andate! Non vi denuncio, ma in casa mia non metterete più piede. -
 Era accaduto che da un ripostiglio era scomparso un gruzzolo di monete d'oro. Il falegname di fiducia aveva lavorato nella camera dove era il ripostiglio.
A nulla valsero le proteste di innocenza. La cosa si seppe nel piccolo paese ed ognuno evitava l'uomo creduto ladro. Nessuno gli dava lavoro. Era la fame per la numerosa famiglia Cesarini.
Angelo che era già malandato in salute, alla preoccupazione della miseria aggiunse la disperazione del disonore. Si ammalò, rimase inchiodato nel letto e fu giudicato inguaribile.
 Il ladro (allora c'erano ladri tormentati dal rimorso e non dal desiderio di diventar commendatori) il ladro era un tale di Serravalle e confessò la sua colpa. Il nobile Mercuri a notte innoltrata corse nella casa dell'infermo, si inginocchiò vicino al giaciglio ed implorò il perdono.
 - Troppo tardi - disse Angelo. - Io vi perdono, e vi perdoni Iddio. Ma me ne vado. Abbiate cura dei miei figli. -
E morì. Nonna Marina, di indole allegra e burlona per natura, quando raccontava la storia di suo padre, ancora in tarda età, non sapeva frenare le lacrime.
 Sposò Badarlon. Era brutto, ma aveva una bella chioma ed una bella barba nera. Vestiva elegantemente, coi calzoni corti muniti di "patavella" e portava il cilindro.
Era un maschio ardito, di quelli che piacciono alle donne.
La consorte gli regalò otto figli: Pio, Giuseppe detto Fafen, Romeo, Attilio, Oreste detto Gnin, Odoardo, Settimio e Teresa. Pio morì a sedici anni, Settimio a tre.
 Nonno Badarlon, giocatore, donnaiolo, conciatore di canapa e guida di emigrati, non guadagnava quanto bastava alla numerosa famiglia. Nonna Marina lavorava giorno e notte e faceva un po' di tutto: bustaia, infermiera, levatrice, fioraia, rammendatrice.
E cantava, cantava sempre. Aveva una bellissima voce, e nel canto affogava le preoccupazioni.
Sapeva un ricco repertorio di musiche operistiche, specialmente verdiana. Sua romanza preferita era "tutte le feste al tempio" del Rigoletto. E osava cimentarsi anche in gorgheggi difficili, rammaricandosi in vecchiaia di non poter cantare a voce spiegata, a pieni polmoni come aveva fatto in gioventù.
 Era l'allegria della casa. Noi da piccoli eravamo sempre attaccati alla sottana della nonna che sapeva l'arte delle più strampalate trovate per tenerci raccolti e farci giocare. Nelle lunghe serate invernali riuniti nella umida piccola cucina attorno al fuoco, nonna Marina filava e raccontava favole. E le raccontava con trovate così allegre e con spirito così satirico che le favole divertivano non soltanto i piccoli, ma anche i grandi che venivano dalle case vicine alla veglia, uomini e donne.
 Amava i fiori, li coltivava con passione nel piccolo orto annesso alla casa, era felice quando poteva farne omaggio a famiglie amiche o adornarne la chiesa ed il quadro della sua madonna, una tela quasi tutta nera che aveva ereditato dalla madre e che è rimasto in casa nostra di madre in figlia.
 Con la sua nera madonna nonna Marina conversava con grande confidenza come avrebbe fatto con sua madre, e spesso la rimproverava.
 - Sono trent'anni - diceva - che vi chiedo una grazia. Ma voi non mi ascoltate. Siete forse sorda come me? -
Perché nonna Marina era sorda ed alla madonna dava del voi.
Spesso buttava via il grosso rosario i cui grani parevano nocciole e troncava bruscamente le preghiere:
 - Sorda siete, oppure io non sono degna di rivolgervi le mie preghiere. E allora che me ne faccio della corona?
Una sera, attraversando al buio la sua stanza, batté uno stinco in una cassa e si fece molto male. Subito si rivolse alla madonna, e lamentandosi disse:
 - Chera la mi madunena, bsogna ca vel degga, ma e vost fiulen, anca lu, un ha savud fe gnint.
Se nelle gambe metteva i polpacci davanti e gli stinchi di dietro, la povera gente non avrebbe visto le stelle urtando nelle casse.
 Ora che la nonna era scomparsa, mio padre disse: - Ecco, è finito il carnevale per i ragazzi: -
A ottant'anni, arzilla e vivace, giocava con noi, suoi nipoti, come avrebbe fatto una ragazzina: ballava la forlana, la padovanella, il trescone, con le mani sui fianchi, il busto eretto, i piedi in rapido ritmico movimento come una villanella della prima metà dell'ottocento.
 Beveva molto volentieri un bicchiere di vino: - Questo - diceva - è il latte dei vecchi. Questo lo acciacco bene! -
Perché nonna Marina non aveva denti.
 Non andava molto d'accordo con i preti. Una volta le annunciammo per ischerzo la morte di Don Fortunato, il cappellano della Pieve detto Don Magnagatti.
 - Poveretto! - disse. - Ora si abbrustolirà le zampe nel purgatorio per tutte le sbornie che ha fatto ed anche per altre porcherie. -
 Ma il giorno dopo incontrò per istrada il vecchio cappellano con l'inseparabile cane Picion.
 - Come? Non siete morto? - chiese nonna Marina.
 - Come vedet, cara la mi Marina, a son ancora in pied.
 - Ed io ho sprecato tutto un rosario per voi. Decidetevi, Santodio! Non vi accorgete che strisciate i piedi? Ma prima purgatevi di tutti i brutti peccatacci che avete fatto.
 Un'altra volta tornò dalla pieve tutta rossa in volto per la stizza. La Signora Diomira Montanari che era sulla porta di casa a prendere un poco d'aria seduta nella sua eterna poltrona (aveva un femore spezzato) le domandò: - Che avete, Marina? Mi sembrate tutta agitata. Che vi hanno fatto?
 - Mi hanno fatto, che io in chiesa, quando c'è il vescovo, non vado più. E' una vergogna! Nostro signore Gesù Cristo possedeva una veste sola che gli aveva fatto la mamma e che cresceva con lui. Davanti al suo altare il vescovo è imbottito di vesti e sopravesti, di manti, merletti e stole come un fagotto, per insultare la miseria di noi, povera gente. A Gesù nessuno ha mai fatto i salamelecchi che i preti fanno al vescovo. E' una vergogna, vi dico! Uno gli mette in testa la mitra un altro gli accomoda sulle spalle il manto dorato, un terzo gli fa la riverenza e gli sbatte sotto il naso il turibolo per profumarlo di incenso, e tutti quanti fanno grandi inchini e genuflessioni come se fosse proprio lui in persona il padreterno. E lo vestono, lo svestono, e tornano a vestirlo ed a svestirlo come un burattino. Che porcheria, gesummaria! In quali mani è caduto il nostro signore! Noi, poveretti, non abbiamo altro vestito che quello che indossiamo; ma il vescovo davanti all'altare, che è l'altare dei poveretti, sfoggia ricche vesti dorate che costano quanto basterebbe a vestire il paese intero. Vergogna, vergogna, vergogna, gesummaria! -
 La signora Diamira rideva fino alle lacrime.
 Nonna Marina era anche una sentimentale.
Nella vita aveva avuto poche gioie e molte tribolazioni; tuttavia quando andava nella Fratta a cogliere erbe ed a raccogliere stecchi per il fuoco, restava lungo tempo in ammirazione del panorama e ripeteva: - Come è bello questo mondo! E come sono belle queste quattro genghe dove sono nata! E quanto mi dispiacerà di morire e di non vederle più!
 Le erbe che coglieva nella Fratta ed in campagna una parte servivano per l'insalata o erano cotte per la cena, una parte conservate in sacchetti e scatole erano preparate per uso medicinale. La nonna aveva una raccolta di erbe secche, di fiori, di semi, di bulbi, di radici per tutti i mali.
Quando qualcuno della casa aveva la tosse o il raffreddore, ecco che la nonna preparava un infuso o, come diceva lei, una bollitura di malva addolcita con molto miele e la faceva bere molto calda. La irritazione dei bronchi, il mal di gola erano curati con empiastri di seme di lino e di erbe aromatiche: contro la insonnia faceva bollire i papaveri, per il mal di denti preparava applicazioni di lattuga cotta.
 Assisteva gli ammalati con qualche esperienza e sapeva essere un'ottima ed allegra infermiera che teneva alto il morale degli infermi con le sue trovate spiritose.
Brontolava contro il Dott. Lancellotti quando misurava la febbre col termometro: - Ecco - diceva - dopo che hanno inventato quello zeppo lì, la febbre non se ne va più. Un decimo, due decimi...Queste moderne invenzioni fanno morire la gente di preoccupazione e di paura.
La febbre si vede negli occhi e si sente nel polso o sulla fronte. Non c'è bisogno di quella diabolica bacchetta di vetro, gesummaria! -
 Brontolava anche contro le moderne invenzioni. Diceva: - Una volta esisteva solo la cera vergine. Oggi hanno inventato la cera-lacca e la cera-loide (celluloide!) per sigillare le buste e fabbricare pettini e bottoni, che col calore vanno in fumo. Per far luce di notte non s'usano più le candele e l'olio di oliva come una volta. Nossignori! Eccoti l'olio di pietra e la gentilena (l'acetilene). E' un sasso puzzolente che, messo  in un barattolo con una goccia d'acqua, soffia sputa, scoppia e fa restar al buio. Viva la faccia del mio lumino ad olio! Povero mondo! Dove andremo a finire con queste invenzioni moderne? -
 Povera nonna Marina! Che cosa avrebbe detto se fosse vissuta all'epoca della luce elettrica, della radio, della televisione e della bomba atomica?
 Fu sepolta, per sua volontà, sotto le logge della Pieve.
Soleva ripetere spesso: - Con mio marito ho litigato abbastanza in questo mondo, non voglio litigare anche nell'altro.
Lui è sepolto nella chiesa dei cappuccini: seppelitemi il più lontano possibile, nella Pieve o in altro luogo più distante dove Badarlon non possa trovarmi. -
 Sotto le logge della Pieve era allora una tomba comune, un lurido sotterraneo dove si calavano i cadaveri chiusi fra quattro assi sconnesse. Si calavano le casse legate con una corda. Il becchino, quando non era osservato, risparmiava la corda e lasciava scivolare dall'alto la cassa che, cadendo sulle altre già marce, le sfasciava o si sfasciava. Si chiamava Bernaccia questo galantuomo di becchino: era il più lurido bipede del paese e diceva ironicamente a chi lo rimproverava, che i suoi clienti non s'erano mai lamentati.

Da il diario di Gino Zani

I Discendenti di BADARLON